Ecco chi è Tim Gajser, di nuovo in cima al motocross mondiale

Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
Un ritratto del campione sloveno che, per la seconda volta, ha conquistato il titolo della MXGP
  • Antonio Privitera
  • di Antonio Privitera
19 agosto 2019

A 18 mesi è stato messo sulla Bmx da papà Bogomir, a due anni e mezzo su una Honda 50, nel 2007 svetta in Europa con la 65 tenuta insieme dal fil di ferro, replica l'anno successivo - ma con l'85cc - quando la maggior parte dei suoi coetanei al massimo fanno brum brum con la bocca, a quindici vince il titolo Europeo 125 con la KTM aggiudicandosi anche il premio FMI Rookie of the Year. 

A diciannove anni la HRC sceglie lui per tornare dopo 20 anni nel Motocross e Tim ripaga laureandosi campione del mondo MX2 con Honda Gariboldi, e a venti trionfatore MXGP nella stagione d'esordio in classe regina.

Se non bastassero i record di vittorie consecutive o il primato come primo pilota ad aggiudicarsi in sequenza MX2 e MXGP come lasciapassare per la leggenda, ieri Tim Gajeser si laurea a Imola per la terza volta campione del mondo a casa del proprio rivale, il nostro Antonio Cairoli costretto da un infortunio a cedere le armi. Tutto con la stessa faccia pulita, la stessa disponibilità e la stessa maturità messa in mostra quando il nostro Zanzani lo intervistò nel 2015.

Basterebbe questo per raccontare quasi tutto di un pilota venuto da Pecke, un paesino sloveno che trovi su Google solo se ingrandisci - e di molto - la mappa, e già vincitore a soli ventidue anni di tre titoli iridati di cui due nella massima categoria dove bazzicano tipi come Herlings e Cairoli.

La storia di questo straordinario talento è fatta di sacrifici, di lacrime, di caparbietà e di lungimiranza.

Papà Bogomir negli anni '80 è un promettente pilota di Motocross che arriva anche a vincere il titolo Jugoslavo e tre volte il titolo Croato, tra alti e bassi finanziari che da soli fiaccherebbero il coraggio di chiunque. Tranne quello di Bogomir, che continua ancora oggi a ripetersi che se avesse avuto migliori condizioni economiche avrebbe certamente vinto un titolo mondiale.

Purtroppo nella sua Slovenia non trova molto supporto ma persevera: arriva anche a costruirsi una piccola pista dietro casa tanto chi vuoi che si lamenti nelle colline di Pecke.

La passione per il motocross di Bogo è totalizzante, smisurata, viscerale, probabilmente amplificata dal fatto che viverla in Slovenia sa di sfida ancora più grande: un Paese piccolo, estratto quasi a forza dalla morsa delle Repubbliche adiacenti dove costituiva la risorsa di minor peso della federazione jugoslava, dove l'indipendenza raggiunta attraverso la guerra dei dieci giorni fu vista come una grande vittoria di Davide contro Golia. E Bogo di Davide, del personaggio biblico ma trasversale a molte religioni dotato di smisurata fiducia in se stesso e capace di scelte difficili e contrastate, deve avere ereditato qualcosa.

Deve essere per forza così se continua ad amare questo sport e a trasmettere ai figli Tim e a Nejc la stessa passione ma anche la stessa dedizione per il sacrificio e per il risultato nonostante il tragico incidente in allenamento dove “Bogo”, atterrando da un salto, investe involontariamente il figlio Zan di tre anni e mezzo che non sopravvive all'impatto con la moto del padre.

È il 1995: la famiglia si sfascia, anche perché solo 14 giorni dopo Bogomir è di nuovo in sella coperto dai giudizi di tutti; si parla di destino, lo stesso Bogomir nelle aule giudiziarie non vuole sentire parlare di responsabilità né sue, né della (ex) moglie per mancata sorveglianza e, anzi, si tuffa a capofitto e senza paracadute economico nelle carriere dei figli, individuando in Tim le potenzialità di un fuoriclasse cui destina tutte le scarse risorse con la certezza granitica di essere in presenza di un futuro campione del mondo.

Si trasferiscono in Croazia, perché in Slovenia i minori non possono partecipare alle gare se non con l'assenso di entrambi i genitori e la mamma di Tim, dopo la tragedia, non riesce ad essere accomodante verso uno sport che gli ha già sottratto un figlio e a dare ancora una volta una mano al destino, qualunque esso sia.

Con i pochi mezzi a disposizione messi insieme tra prestiti e sponsorizzazioni, con i ricambi e l'equipaggiamento sempre al minimo sindacale, Tim si fa largo tra i grandi e quando il team di Giacomo Gariboldi e Massimo Castelli gli assicura un trattamento ufficiale lui inizia a stupire.

Dietro i successi di Tim c'è tutta la sua famiglia, la determinazione del padre (da sempre suo allenatore e manager, in questo riprendendo il percorso tracciato da Carmichael e Stewart) che rimane il suo modello.

C'è il suo numero di gara, il 243 in onore del fratello Zan nato il 24 marzo. C'è l'attenzione alle vita reale, alla disciplina che gli ha vietato di prendere scorciatoie e di pensare che della scuola un campione ne possa fare a meno e in questo è imparagonabile ad un altro figlio d'arte come Valentino Rossi che invece non ha terminato il liceo. Ogni campione è campione a modo suo, tutti i comprimari hanno una carriera simile.

E arriviamo così ad Imola 2019, dove basta un ottavo posto per laurearsi campione del mondo MXGP per la seconda volta, per dare un altro graffio alla porta che conduce alla leggenda.

Dopo nove vittorie, un ottavo posto di manche è quello che serve per il titolo. Sarebbe nulla, per uno come lui che annusa già il primato di essere il primo pilota nella storia del Motocross a chiudere la faccenda mondiale con tre round di anticipo. Invece parte quarto, si emoziona, cade, si ritrova ottavo. Andava bene pure così, ottavo. Ma in Slovenia non glielo avrebbero perdonato, è sempre Davide contro Golia: lui se lo ricorda, tiene duro, arriva quinto ed è matematicamente campione del mondo MXGP 2019.

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